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Genesi e retorica del liber

Nel 1306 Arnaldo di Rassach, arcidiacono della chiesa di Xativa e consigliere di Federico III, veniva eletto dodicesimo arcivescovo di Monreale dal capitolo dei canonici e il 16 febbraio dello stesso anno la sua nomina era ratificata da Clemente V.

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Poco è noto di Arnaldo e della sua amministrazione a Monreale.

Prima di diventare arcivescovo di Santa Maria Nuova era stato chierico presso la diocesi d’Elna e un illustre esponente della chiesa di Valenza; divenuto tesoriere della Camera Regia di Federico III e quindi eletto a guida di Monreale, aveva iniziato a collaborare attivamente con Clemente V nella promozione della crociata.

Curiosamente, la motivazione per cui più frequentemente viene menzionato è proprio quella di essere stato il promotore della collectanea privilegiorum monrealese, la cui compilazione si colloca tra la data dell’elezione e il 1324, anno in cui si concluse il governo del Rassach su Monreale.

La genesi del liber, i motivi della raccolta e le circostanze della sua redazione vengono parzialmente menzionati nel breve Incipit , dove infatti si legge:

(…) privilegiis immunitatibus et exentionibus premunire, quorum privilegiorum aliqua dispersa, in diversis partibus et locis recondita, inordinate permixta et indebite collocata manebant. Ideoque nos Arnaldus dicte ecclesie archiepiscopus, postquam ad ipsius ecclesie regimen fuimus miseratione divina promoti, ut volentibus de dictorum devotione principum plenam habere noticiam satisfiat et documenta ex eis sumere volentibus longe inquisicionis labor absit et facilius eis quod inquirunt occurrat, dicta privilegia, libertates et immunitates continencia, in unum volumen per fidelem scriptorem providimus redigenda, facientes tenorem ipsorum de verbo ad verbum transcribi in subscripto volumine nil addito vel, sicut credimus, diminuto, quod sensum mutet aut vitiet intellectum. Nec enim omnia dicte ecclesie privilegia complectendi et in hoc volumine comprehendendi studium incessit.

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La compilazione si spiega dunque attraverso la volontà dell’arcivescovo Arnaldo di raccogliere e riordinare i documenti della sua chiesa, che erano distribuiti «in parti diverse e luoghi reconditi, ordinati confusamente e collocati indebitamente», al fine di tutelare e rivendicare quei diritti che – evidentemente – erano stati messi in discussione e contemporaneamente assicurarsi un agile strumento di riferimento giuridico che controbilanciasse eventuali dissensi politico-amministrativi.

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Pare infatti che all’epoca in questione la diocesi di Monreale avesse attraversato un periodo abbastanza tumultuoso – tanto che la stessa elezione del vescovo era risultata piuttosto controversa – e che durante i periodi di sede vacante in molti si fossero ingiustamente arrogati diritti e terre ad essa appartenenti.

La redazione del liber troverebbe dunque una giustificazione nella necessità di recuperare le radici, e con queste una legittimazione al possesso e al dominio forse trascurati durante i torbidi del XIII secolo.

 

Una pagina del Codex Wangianus

In questa direzione, un perfetto parallelo può essere rappresentato dalla compilazione promossa, più o meno nello stesso periodo, dal vescovo di Trento Federico Vanga, il cartulario noto come Liber Sancti Vigilii o Codex Wangianus (1207-1218), nel cui prologo, alle analoghe motivazioni di ordine politico, si affiancano anche la volontà di documentare i recenti trascorsi di instabilità e confusione che l’istituzione ecclesiastica aveva appena attraversato.  

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Un ulteriore indizio sta poi in quell’antitesi tra memoria e oblio – rimarcata nell’Incipit rassachiano – che, pur non essendo affatto inconsueta nella topica duecentesca1, nel caso del liber monrealese si spinge oltre, elaborando la necessità di conservare il passato per disporre del presente e ordinare il futuro, inserendo quindi l’incitazione memoriale nella concretezza di un tempo e di una fase politica difficili.

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Il profondo dissesto politico attraversato dalla diocesi di Monreale doveva, necessariamente, riflettersi nell’ordinamento dell’ampio archivio arcivescovile che proprio in quegli anni stava iniziando a formarsi, in cui – all’epoca di Arnaldo – si conservavano ancora promiscuamente i documenti e i registri ecclesiastici e civili dell’Arcivescovato, gli atti della Mensa, i documenti istitutivi del monastero e i privilegi di conferma.

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L’Archivio e il Tabulario di Santa Maria Nova

 

   

Nello spiegare la sua iniziativa editoriale, che nelle parole dell’arcivescovo sembra connettersi esclusivamente a motivazioni di ordine archivistico e conservativo, non vanno però sottovalutate le ragioni più profonde – i motivi sotterranei – di una simile scelta.

L’organizzazione e la protezione delle scritture rappresentano infatti pratiche sociali e istituzionali ben più complesse e sfaccettate della semplice conservazione archivistica della documentazione.

 

 

 

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Un archivio, collocandosi sempre al centro di un continuum di rapporti politici e sociali – l’istituzione stessa, i suoi vicini, i poteri centrali e i professionisti della scrittura – come il luogo in cui si mettono in atto determinate tecniche di custodia documentaria, non necessariamente risulta in grado di rendere fruibile l’informazione realmente preziosa e convalidante.

Il progetto dunque, può essere chiarito soprattutto alla luce dell’esigenza, da parte della fondazione religiosa, di ottenere uno strumento di certificazione forte col quale affermare i propri titoli sul territorio, nel quadro di un più ampio programma politico-documentario che, nella scelta delle attestazioni trascritte, trovava il proprio manifesto ideologico.

L’elaborazione di un registro diplomatico significava inoltre principalmente l’attivazione di un processo di promozione identitaria.

La selezione della documentazione da trascrivere e ancor di più, il livello di consapevolezza in ordine alla scelta di includere oppure omettere determinate attestazioni documentarie è l’indicatore più sicuro dell’attribuzione al liber di un valore memoriale e culturale.

 

 

 

 

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All’indubbia utilità di possedere copia degli atti senza pericolo di dispersione degli originali e senza introdurre fattori di disordine e confusione all’interno dell’archivio, si accompagnava cioè nella compilazione del cartulario anche un intento autorappresentativo e di prestigio, secondo una strategia parallela alle coeve esperienze comunali.

 

 

Il proposito non nega la portata della spinta conservativa, troppo spesso minimizzata dall’eccessiva attenzione verso le componenti politiche e ideologiche delle scelte documentarie, che anzi viene costantemente evidenziata – nei preamboli di ogni cartulario – attraverso il richiamo alla deperibilità della documentazione sciolta, ai rischi di smarrimento, alla migliore consultabilità del materiale copiato nel libro.

L’invito della storiografia francese a considerare i cartulari come «documenti in sé stessi, il cui interesse differisce dalla somma particolare di ogni documento trascritto»2 è stato generalmente declinato in chiave simbolica e ideologica – il testo come monumento del prestigio e della potenza dell’istituzione – piuttosto che pragmatica, marcando la valenza del liber come strumento di corredo alle carte dell’archivio o come prodotto utile ai contenziosi giudiziari.

Se invece si supera l’appiattimento dell’attenzione sulle finalità, conducendo adeguate analisi sulla struttura e le selezioni compiute, è possibile approdare alle motivazioni reali, sebbene sottese, di siffatte compilazioni3 .

L'Archivio e il Tabulario di Monreale

Struttura, caratteristiche, contenuti del Liber

 

 

I problemi della produzione della fonte e della selezione operata dai canali che l’hanno trasmessa, quelli della diversa possibilità di conservazione di un documento secondo la sua natura, che sono, almeno a livello teorico, riconosciuti come fattori di condizionamento primario nella ricerca storica, impongono infatti che almeno tre momenti vadano considerati nella storia della fonte: il contesto della produzione, la sua tradizione archivistica e bibliotecaria, il lavoro di erudizione e di edizione che ne ha accompagnato la vicenda.   

In questa prospettiva si perviene ad un’angolazione diversa, in grado di leggere i depositi documentari e le vicende della loro conservazione senza separarli dalle particolari esigenze di rivendicazione alla base della loro genesi, conducendo – attraverso un’analisi dettagliata del nesso rivendicare/ricostruire –  a considerare la veridicità delle attestazioni all’interno del processo stesso di costruzione delle fonti: un processo di cui è possibile cogliere attraverso casi-studio ravvicinati gli aspetti insieme sociali, politici e culturali.

È dunque in questa doppia fisionomia, pragmatismo archivistico e ideologia identitaria, che possono essere spiegati i toni enfatizzanti indirizzati al culto e alla tutela della propria memoria storica.

Nel racconto del momento genetico del liber si dispiega cioè tutta una retorica discorsiva che troverà poi pieno compimento in una narrazione complessa, composta selezionando e intrecciando i documenti da trascrivere.

 

 

«A voler essere ancora più espliciti, si potrebbe dire che i documenti stanno al cartulario come le parole al discorso»4: la trascrizione di una collezione documentaria composta attraverso una selezione che combina, di volta in volta, i documenti, è cioè uno dispositivo retorico volto a sviluppare una narrazione  ragionata, spesso rivolta ad un determinato soggetto politico o calibrata su uno specifico momento storico.

Si tratta di un aspetto in qualche modo connaturato a questa tipologia di scrittura, che tende a legare – fino appunto a formare un racconto – unità documentarie indipendenti.

Nel caso del liber privilegiorum di Monreale il superamento del mero significato utilitaristico traspare chiaramente, articolato in un discorso documentario concentrato sul dominio e sul possesso che alimenta l’immagine di un potere geopolitico particolare, in quanto posto all’interno dei problematici rapporti e degli equilibri con i centri di governo locali e assoluti,  sviluppando una vocazione – presente sin dalla fondazione dell’abbazia – al controllo e dominio di un territorio che si relaziona con poteri ora circoscritti, ora universali.

 

 

Il cartulario cioè, è una realtà che si incardina entro una pluralità di giurisdizioni e diritti, e in cui inevitabilmente i processi di trascrizione documentaria, generando il precedente convalidante e definendo quindi uno status, assumono valenze forti e legittimanti.

La selezione operata nella scelta della documentazione trascritta, consapevolmente asservita ad un intento narrativo, è la chiave di volta per comprendere l’originalità dell’operazione documentaria monrealese in relazione ai prodotti della tradizione comunale, di cui recupera invece la valenza pragmatica – e quindi la funzione di salvaguardia dei diritti – e ideologica5.

 

 

In questo senso il cartulario si riallaccia piuttosto alla tradizione memorialistica, propria della cultura scritta ecclesiastica, che consapevolmente aveva attinto alla documentazione come vettore identitario, risponendo ad un esigenza documentale più complessa della semplice riproposizione di diritti e privilegi pregressi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In quest’ottica sono la stessa progettazione e il momento della stesura a divenire gli elementi rilevanti, perché è nella fase organizzativa e nella qualità globale della documentazione da tramandare che affiora l’impegno storicizzante, volto a riflettere, nel materiale trascritto, la capacità della diocesi di affermarsi prima e governare poi: sicchè, superando la tradizione compilativa in atti sciolti, la pratica del cartulario si configura come momento complementare del processo di maturazione e consolidamento del controllo, e assurge a meccanismo regolativo dell’ordine giuridico, della ripartizione delle risorse, della composizione dei conflitti e del controllo del dissenso6.

 

Essendo inoltre escludibile, in questa operazione scrittoria, una funzione di supporto all’amministrazione corrente, si accredita ulteriormente l’idea che si tratti di un intervento teso a creare un luogo giurisdizionalmente compatto, dove sottolineare le caratteristiche dell’assetto di governo collocandosi anche sul piano del controllo temporale: di un passato che deve essere descritto e interpretato in funzione della ratifica del presente, di un presente che deve essere organizzato e di un futuro che può essere pianificato, prescritto7.

Ad uno sguardo più attento dunque, il liber si rivela come un prezioso strumento di narrazione e di argomentazione, il luogo in cui si codificano non solo iura e privilegia ma anche una memoria del passato selettiva e operazionale, asservita ad un intento politico.

La sua progettazione ha comportato per la comunità vescovile il passaggio da una memoria-archivio a una memoria funzionale, strutturata da un processo di scelta, di collegamento, di costruzione del senso o, per usare una definizione di Halbwachs, di una «cultura di cornice»8.

 

 

 

 

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In questa prospettiva si comprende anche la necessità di leggere la vicenda del cartulario monrealese – ma in verità dei cartulari tutti – in termini più ampi, come una delle possibili espressioni del più complesso rapporto fra memoria e scrittura in ambito istituzionale: una relazione nata da sollecitazioni in parte comuni alle istituzioni medievali ma che, a seconda del contesto sociale e politico in cui si inserivano, produsse esiti molto distanti tra loro.

 

 

 

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1 Per la quale si rimanda a E. Artifoni, Retorica e organizzazione del linguaggio politico, in Le forme della propaganda politica nel Duecento e nel Trecento. Relazioni tenute al Convegno Internazionale organizzato dal Comitato di Studi Storici di Trieste, dall’Ecole française de Rome e dal Dipartimento di storia dell’Università degli studi di Trieste (Trieste, 2-5 marzo 1993), a cura di P. Cammarosano, Roma, Ecole française de Rome 1994 (Collection de l’Ecole française de Rome), pp. 157-182:178.

2  P. Toubert, Dalla terra ai castelli cit., p. 7.

3  «L’analisi della struttura delle fonti deve assumere una posizione centrale nel patrimonio dello storico. A questo appello, che è stato particolarmente energico negli ultimi anni nell’ambito degli studi medievali, non corrisponde ancora, tuttavia, una pratica di lavoro generalizzata», E. Artifoni, A. Torre, Premessa a Erudizione e Fonti, n.s. di Quaderni Storici, 93 (1996), pp. 511-518:511. I due studiosi hanno rimarcato le difficoltà intrinseche nell’impiantare un approccio ‘stratigrafico’ alle fonti, non limitato a constatarne lo stato di arrivo ma in grado di interrogarsi sistematicamente sui modi della loro genesi e della loro trasmissione.

5  La debolezza del nesso fra i libri iurium comunali e la memoria storica è rimarcata da Paolo Cammarosano, cfr. P. Cammarosano, I libri iurium e la memoria storica delle città comunali, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350). Atti del XIV Convegno di Studi (Pistoia, 14-17 maggio 1993), Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte, Comune di Pistoia 1995 (Atti di Convegni); ora in Le scritture del comune. Amministrazione e memoria nelle città dei secoli XII e XIII, a cura di G. Albini, Torino, Scriptorium 1998.

6  Argomentazioni simili, seppure riferite alla più tarda produzione statutaria,  si ritrovano in A. Romano, Le due Italie degli Statuti: tra Regno, Signorie e Comuni. Spunti comparativi, in Signori, regimi signorili e statuti nel tardo Medioevo. Atti del VII Convegno del Comitato italiano per gli studi e le edizioni delle fonti normative (Ferrara 5-7 ottobre 2000), a cura di R. Dondarini, G.M. Varanini, M. Venticelli, Bologna, Patron 2003, pp. 33-50.

7  Cfr. L. Baietto, Elaborazione di sistemi documentari e trasformazioni politiche nei comuni piemontesi  cit., p. 679.

8  M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, Napoli, Ipermedium 1997 (Memorabilia, 3); tit. or. Les cadres sociaux de la mémoire, Paris, F. Alcan 1935, (Bibliotheque de philosophie contemporaine), p. 123.