La comunicazione storica nell’era multimediale
Le novità che Internet ha introdotto nel mestiere di storico sembrano aver riguardato maggiormente il rapporto con le fonti, coinvolgendo in misura minore le forme di esposizione dei risultati della ricerca. Come ha giustamente rilevato Gianfranco Bandini,
La tipografia e la penna hanno costituito fino ad ora, per così dire, la langue e la parole della comunicazione scritta. La riproducibilità informatica delle fonti ha inevitabilmente spostato la linea di demarcazione tra ricerca, scrittura e comunicazione, presentando al lettore una parte più ampia del lavoro dello studioso e inserendo la problematica delle fonti anche nella fase comunicativa. Il cyberspazio è divenuto la nuova frontiera nei territori della scrittura – anche di quella storica – e in esso si sono ridisegnate nuove relazioni fra studiosi, oggetti della ricerca e fruitori.
Il mutamento in atto, è evidente, non è solo tecnologico ma anche, se non soprattutto, delle pratiche e dei linguaggi con cui si scrive la storia, che ne risultano profondamente modificati, insieme – ovviamente – ai criteri di valutazione del lavoro scientifico, che andrebbero aggiornati alla fluidità delle pubblicazioni digitali.
Ma proprio questa fluidità, insita nelle norme della comunicazione ipertestuale e nella loro naturale tendenza verso il non finito, suscita tra gli storici forti imbarazzi2 e, nonostante gli annunci apocalittici e le peculiari lamentazioni sulla morte del libro, una reale affermazione dell’editoria elettronica in rete non sembra essersi ancora verificata in termini sostitutivi alla produzione cartacea3. La diffidenza verso il “testo fatto a pezzi”, sentito come una rottura drammatica con una intera e nobile tradizione culturale, produce ancora chiusure conservatrici e un’enorme ritardo sembra caratterizzare – soprattutto in Italia – la storia scientifica e professionale rispetto a quella amatoriale nell’utilizzo della Rete e dell’ipertestualità come strumenti di comunicazione, mentre «la ricerca e i suoi prodotti continuano a prendere invece la via della carta stampata»4. Anche la maggior parte delle iniziative di editoria elettronica accademica finora condotte, si sono per lo più limitate a riprodurre la forma e la struttura delle pubblicazioni cartacee, secondo un approccio che sembra essere caratteristico di una fase di transizione e del tentativo di mediare un passaggio che è ancora avvertito come eccessivamente brusco.
Attraverso questo passaggio “indolore”, il libro stampato – appena inventato – risultò comunque subito familiare, mentre per molti aspetti si trattava di una tecnologia realmente rivoluzionaria, che ridisegnava lo spazio dello scrivere inserendovi le nuove proprietà di linearità, riproducibilità e fissità prima impensabili. E non solo. Come ha sottolineato nel suo magistrale lavoro Elisabeth Eisenstein, la stampa modificò anche i metodi di raccolta, sistemazione e recupero dei dati: la preparazione del materiale da stampare portò infatti ad una riorganizzazione di tutte le arti e le pratiche inerenti l’editoria, con mutazioni professionali rilevanti e nuove forme di interscambio culturale, tanto che «nella figura dello studioso stampatore si produsse un uomo nuovo, capace di maneggiare macchine e vendere prodotti curando al contempo i testi» e favorendo branche diverse di discipline erudite5. La diffusione della stampa incise dunque profondamente, e in modo radicale, sulle forme e la trasmissione della cultura e il fatto che parole e immagini identici potessero essere visti contemporaneamente dai lettori lontani costituì in sé una rivoluzione della comunicazione ben difficilmente eguagliabile. Paradossalmente il computer, avvertito come strumento sovversivo, ha invece, almeno come tecnologia per la scrittura, molto in comune con i suoi predecessori. Eccessive appaiono sia le considerazioni di Marshall McLuhan che, pubblicando nel 1970 il suo famoso The Gutenberg Galaxy, dichiarava perentoriamente terminata un’epoca e i suoi metodi di indagine storica e filologica, mettendo in luce l’avvento di una nuova dimensione nella scrittura scientifica, sia l’allarmata reazione di Carl Bridenbaugh, fautore della Great Divide Theory6.
Certo, è fuor di dubbio che la tecnologia elettronica e quella digitale stiano contribuendo a riconfigurare i luoghi dello scrivere7: ma è lecito parlare di rottura radicale, paventando una crisi che invece non esiste? Non sarebbe tanto più saggio, piuttosto, prendere atto che si tratta invece di una ri-mediazione, insieme omaggio e oltraggio ai vecchi medium e, in fin dei conti, un loro miglioramento e superamento? Ignorando i passi in avanti nella conoscenza compiuti dal genere umano, si indulgerebbe – parafrasando Jack Goody – in un relativismo sentimentale che dimentica come la grande maggioranza delle persone, quando hanno l’opportunità di usarle, dia il benvenuto a queste tecniche o ai loro prodotti.
I cambiamenti nei modi di comunicazione pesano e indubbiamente modificano alle radici la vita dell’umanità, ma un nuovo mezzo di comunicazione non sostituisce necessariamente ciò che c’era prima: piuttosto, integra i precedenti. Bisognerebbe inoltre essere coscienti del fatto che le proprietà della scrittura a mano, della stampa e della scrittura digitale sembrano, in ciascun caso, favorire alcune forme comunicative e ostacolarne altre: se ad esempio il libro stampato è propizio alla lettura lineare, l’ipertestualità propria del mezzo informatico agevola invece il pensiero associativo.
In questo senso, l’ipertesto – l’innovazione di maggiore portata, e potenzialmente dirompente, con cui le discipline storiche e umanistiche si ritrovano a fare i conti – sembra anzi inserirsi profondamente all’interno della tradizione culturale dell’umanità. Il testo elettronico, e particolarmente quello pubblicato sul Web è, prima ancora che ipertestuale, una struttura aperta, mutevole: si intende perciò come una tradizione fondata sulla comunicazione del sapere attraverso testi su libro – testi autoriali, compiuti, unici, protetti dal metodo filologico e interpretativo – si trovi spiazzata da una testualità non più destinata alla chiusura dei confini e dei margini, alla compiutezza. Eppure, riconsiderare i linguaggi e i metodi della scrittura, anche di quella storiografica, non significa necessariamente aderire al post-strutturalismo, così come la scelta di costruire un ipertesto non costituisce affatto l’abbandono al dominio della casualità: perché, al contrario, richiede una progettualità più forte e complessa rispetto all’organizzazione del discorso lineare. Di più: proprio la strategia e la logica nell’ordinamento e nell’accesso alle varie sezioni, nei criteri di consultazione e interrogazione, nei legami interni o esterni costituiscono elementi rilevanti per comprendere l’ordine e la coerenza dell’autore. Assumendo che l’ipertesto non è affatto caotico ma che, dal punto di vista concettuale, è in grado di organizzare i materiali di cui un testo tradizionale si compone in unità relativamente autonome, ognuna dotata di una coerenza almeno locale e però collegate l’una all’altra secondo un qualche criterio8 significa, in verità, proporre una metafora dello scrivere che utilizza comunque termini canonici: ricercare, come sintesi eccellente della narratività elementare della testualità storica, come coesistenza di esplorazione – ricerca casuale – e interrogazione – ricerca mirata –, e condividere, come reazione al solipsismo prodotto dalla creazione e dalla lettura del libro stampato.
Altro nodo problematico della pubblicazione on line dei risultati della ricerca è rappresentato dall’eventuale stravolgimento dei meccanismi della canonizzazione, messi in crisi dalla possibilità – per chiunque – di essere editore di sé stesso, pubblicando in rete da soli i propri documenti senza sottoporsi al giudizio preventivo di nessuno. A questo proposito si parla infatti spesso di un caso estremo di “disintermediazione”10, alludendo all’eliminazione – o attenuazione – in ambiente elettronico delle figure che tradizionalmente fanno da filtro tra l’autore e il lettore: editori, redattori, comitati scientifici, distributori, per citarne solo alcune. Con internet cioè, il classico ciclo della pubblicazione diventa una rete in cui nessun passaggio è obbligato, nessuna figura può lucrare su posizioni di rendita e dove ciascun soggetto rischia costantemente di venire scavalcato.
Senza dunque arrivare a certe estremizzazioni radicali, che condurrebbero al rovesciamento di equilibri consolidati, va assunto che la tecnologia consente di attivare meccanismi indubbiamente efficaci ed equi, che siano in grado di far tornare nelle mani degli autori la proprietà intellettuale del proprio lavoro e assicurino la rapidità e la gratuità della circolazione dell’informazione. In questo senso, il passaggio al modello – culturale e telematico – della Rete, non condurrebbe necessariamente alla disintermediazione ma piuttosto, ad una iper-intermediazione che, proponendo l’aumento dei percorsi informativi, comunicativi e documentari, amplierebbe in proporzione anche le possibilità di scelta e i punti di vista da cui affrontare i problemi cognitivi e i criteri con cui approcciarsi alla ricerca. Nonostante le considerazioni fin qui esposte, il ricorso al medium digitale in ambito storiografico, con il quale è possibile porre sullo stesso piano la narrazione e le fonti creando saggi critici che siano anche archivi, rappresenta una grande opportunità ancora, per molti versi, sottovalutata. E non soltanto per la possibilità di semplificare l’accesso ai testi storici, operazione di per sé molto apprezzabile ma che nulla dice sulla qualità del lavoro, ma soprattutto perché produrrebbe una nuova forma di organizzazione del pensiero in cui, contrariamente alle apparenze, convivono benissimo linearità e pluridirezionalità, offrendo – in molti casi – una maggiore capacità di penetrazione nella profondità storica.
La possibilità di pensare e usare la normale pagina scritta come un database trapunto di nodi non gerarchizzati, entro i quali è lecito navigare, è una teorizzazione che non implica un invito alla deriva del senso o alla navigazione anarchica; al contrario, proprio la condizione ipertestuale costringe ad operare in modo rigoroso. La produzione di un ipertesto, di un sito web, interessa infatti una scrittura di secondo livello, in cui i singoli nodi sono riuniti, attraverso i link, in organizzazioni più ampie: ogni nodo è quasi come una parola che il processo di scrittura ipertestuale connette con altre parole e immagini in frasi più complesse. Ma ogni ipertesto non è solo una struttura: semmai una struttura di possibili strutture attivate dai processi di navigazione dell’utente, che vengono previsti e guidati dall’organizzazione della rete ipertestuale e dalle forme della sua presentazione. Realizzare un ipertesto storico significa in altre parole tracciare un percorso di analisi, di studio, di discussione, attraverso un insieme di dati, informazioni, testi, immagini che siano in grado di fornire un valore aggiuntivo all’oggetto studiato: in questo senso l’ipertesto può diventare un’interessante tecnica storiografica, uno strumento di controllo e verifica delle interpretazioni fornite da una determinata ricerca.
Lo storico – ma anche l’intellettuale tout court – dovrebbe assumere come dato oggettivo l’idea di riuscire, attraverso l’impiego degli strumenti tecnologici, a perfezionare le competenze professionali della sua professione, ma soprattutto dovrebbe prendere piena coscienza che la rete va affrontata iuxta propria principia e che la sua struttura intrinseca richiede un confronto con una spazialità non riducibile alla monodirezionalità, fondata su una testualità aperta. Quello tra ricerca storica e pubblicazione dei suoi risultati attraverso il Web, se non necessario, è dunque un rapporto importante, data la pervasività della Rete come mezzo di comunicazione, ricco di allettanti prospettive seppur foriero di problematiche tecniche e teoriche non trascurabili. Senza arrivare alla formulazione estrema di Peppino Ortoleva, secondo il quale – dopo Internet – lo storico o sarà comunicatore o non sarà, con l’informatica è però possibile rimarginare quella cesura profonda tra il processo di ricerca e la sua conclusione, ovvero l’elaborazione da parte dello storico di un testo sequenziale e monolineare nel quale inevitabilmente si perde una parte dei testi utilizzati e dei percorsi seguiti.
Il computer e l’ipertestualità consentono potenzialmente di presentare nella scrittura storiografica l’intera sceneggiatura, il montaggio che dà ragione della strada seguita, rendendo parallelamente possibile la verifica sulle fonti disponibili e la costruzione di percorrenze diverse. La questione centrale da affrontare è, semmai, quella di costruire un rapporto dinamico con la tecnologia, rispondendo ai criteri del metodo storico: la sfida da raccogliere è tradurre le proprie tradizioni nelle nuove forme comunicative e nei nuovi linguaggi. La mediazione con il passato dovrà essere utile al configurarsi di un nuovo contesto comunicativo, e da questo esito dipenderà la capacità della storia di continuare ad essere una materia fondamentale nella formazione culturale degli individui. Fare storia con la rete non esime lo storico dal fare riferimento ai pilastri del suo mestiere e prima di tutto al dubbio critico di fronte alle testimonianze del passato, le fonti del suo lavoro.
Esisteranno sempre le scelte critiche per delimitare un argomento a monte della ricerca e della scrittura, il corpus delle prove, fossero pure digitali e ipermediali e la narrazione in modo lineare o ipertestuale, l’interpretazione offerta dallo storico. Un dato però non cambierà: l’origine resterà sempre la mente umana, un interesse, una passione. Senza uno studioso che se ne servirà per approfondire un argomento che gli stia a cuore, un computer, lo schermo su cui leggere un testo, il mouse con cui esplorare un sito internet, un cd-rom altro non saranno che alcuni degli innumerevoli pezzi di plastica di cui il nostro mondo è pieno.
2 Come del resto la dimensione partecipativa, la cooperazione nella costruzione di risorse condivise e in continuo aggiornamento, strettamente connesse ai modi della comunicazione in rete. 3 Cfr. R. Minuti, Le frontiere editoriali cit. 4 P. Corrao, Storia nella rete, storia con la rete, in Nuove Effemeridi. Rassegna trimestrale di cultura, a. XIII, 51 (2000/III), pp. 53-60. 5 E.L. Eisenstein, The printing revolution in early modern Europe, Cambridge, Cambridge University press 1990; trad. it.: Le rivoluzioni del libro: l’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna, Bologna, Il Mulino 1995 (Biblioteca), p. 148; ma v. anche le pp. 12 e 38. 6 Cfr. C. Bridenbaugh, The Great Mutation, in The American Historical Review, 68 (1963), pp. 315-331. 7 Cfr. J.D. Bolter, Lo spazio dello scrivere. Computer, ipertesto e la ri-mediazione della stampa, Milano, Vita e Pensiero 2002 (Argomenti di Psicologia); tit. or.: Writing space. Computer, hypertext and the remediation of print, IIa ed., Lawrence Erlbaur Ass. 2001. 8 Cfr. F. Carlini, Lo stile del Web cit., p. 51. 9 F. Pellizzi, Per una critica del link, in Bollettino ‘900, 2 (Dicembre 1999). 10 Cfr. D. Grossman, A lesson from Portugal, or fighting disintermediation, in Searcher, 14 (2006)4, pp. 45-47; B. Quint, Disintermediation marches on, in Information today, 22 (2005)11, pp. 7-8. 11 Cfr. Internet e Storia, a cura di R. Fidanzia e A. Gambella, Roma, Drengo 2002 (Quaderni del Medioevo Italiano project). |